La critica
Luciano Caramel, Milano 2013
Marco Rosci, Verbania 2008
Peter Weiemair, Bologna 2004
Francesco Saba Sardi, Milano 1998
Per decenni la casa di Calderara, che oggi ospita una delle più singolari raccolte d'arte moderna, è stata un approdo, una tappa d'obbligo nella geografia della pittura vera - che non è affatto quella di cui si sente più spesso parlare. Il grosso pubblico ignorava l'esistenza stessa di un pittore "difficile" come Calderara, ma gli "addetti ai lavori" sapevano che qui, in questo paese sospeso sopra il lago d'Orta - che una leggenda vuole triste e cupo: e ben venga la leggenda, che in parte lo ha protetto dalla valanga turisticodevastatrice degli anni del boom - c'era qualcosa da cercare, qualcosa da trovare. Calderara e la sua casa così tipica, così intatta, così rigorosa, costituivano l'epitome della vicenda dell'arte che si usa definire "moderna".
Io penso che questa vicenda si possa così sintetizzare: c'è stato, a partire dal Rinascimento, un graduale prevalere della tecnica sulla creatività. L'arte europea è diventata "perfetta", tecnicamente impeccabile, talmente padrona dei suoi mezzi materiali da poter battere tutte le strade, da tentare ogni soluzione, finché si è trovata di fronte alla necessità impellente di disfarsi di un eccesso di ricchezza, di un complesso di dispositivi e trucchi, di ritrovare la povertà; di fuggire, come il Buddha, dal troppo fastoso palazzo dei padri, di spogliarsi, di buttare gli orpelli.
Erroneamente, si è voluto vedere, in quello che si usa definire cammino verso l'"astrattismo", l'espressione del progetto tecnologico: una sorta di sovrastruttura, ricalco esatto del trasformarsi del modo di produrre, di una sottesa struttura che sarebbe poi una sorta di noumeno, la verità vera del divenire umano. Quasi che ciò significhi assumere le caratteristiche dell'homo faber. Quasi che l'arte si sia mai adeguata, dacché esiste, alla realtà sociologica, tecnologica, oggettuale, meccanica.
Che l'arte genericamente "astratta" sia stata abilmente utilizzata, sottilmente sfruttata a fini che le erano estranei, che sono estranei a ogni arte, è tuttavia innegabile . Si è così assistito al fallimento di una rivoluzione - o forse della Rivoluzione? - che si supponeva o sperava o congetturava o ci si illudeva che potesse sbocciare proprio dal rinnovamento della figurazione, della forma, della spazialità e della sonorità. Ma, più o meno consapevolmente, l'artista "nuovo", quello che si è opposto alla figurazione di tipo tradizionale, alla spazialità di matrice aristotelica, ha voluto rifarsi al "primitivo", ha tentato di recuperare le fonti, e le fonti erano il "povero", il superamento del sapere, la riscoperta di quello che si è voluto definire "grado zero".
Che questo tentativo sia riuscito o fallito, poco importa; poco importa, dico, se l'arte "nuova" è divenuta oggetto di commerci, se suo malgrado si è trasformata in feticcio, in veicolo di speculazione, se è stata trascinata per i rigagnoli, involgarita e prostituita con l'ausilio, non sempre innocente, ma spesso anche prestato in buona fede, di una folla di esplicatori, di "parlatori" d'arte, incapaci di comprendere che l'artista è invece un "parlato", un posseduto. E giustamente questo nostro è stato definito il secolo della critica: anche l'arte è entrata, volente o nolente, nel circuito del Grande Dibattito.
Ciò che è mutato davvero, sia pure in maniera indefinibile, tale per cui nessun critico riuscirà mai a ridurla a preparato anatomico, a formula, a modulo, a spiegazione, è il modo di porsi di fronte al mondo proprio dell'artista contemporaneo, il suo rapporto con il mondo, anzi l'invenzione di mondi a moltiplicare quello presuntamente reale, suppostamente unico. E non si è trattato di un semplice ricupero del passato, del "pensiero selvaggio", di una mera reminiscenza - per servirsi di un termine caro a Kierkegaard - bensì di un ricominciamento. Il messaggio dell'arte moderna, dove non sia ridotta a prodotto commerciale, è un madornale, incrollabile, incoercibile NO. Il cosiddetto astrattismo non si presta a essere "capito", anche se si presta a essere sfruttato.
Quante opere davvero valide sono appese alle pareti di alloggi borghesi? E perché stanno lì, attaccate e mai guardate, tutt'al più mostrate, esibite, ornanti e comprovanti, meri status symbols? Perché "valgono". Ma il loro significato, la loro interiore insondabilità, resta impermeabile, enigma non risolto. A me sembra - e non credo di sbagliarmi - che il NO opposto dall'arte genericamente "moderna" ai condizionamenti di vario tipo - il NO segreto, il NO sostanziale, il NO intraducibile in spiegazioni - sia tangibilmente documentato da questa casa-vicenda, da questa collezione così personale e universale, che ospita la scelta compiuta da Calderara nella massa delle apparenze, durante una lunga, sofferta e felice esistenza. Voglio dire che le opere qui raccolte - e questo non è un museo - testimoniano della possibilità, ritrovata dall'artista "moderno" dopo la lunga parentesi che va dalla fine del Medioevo alla fine del XIX secolo - il periodo delle sicurezze e certezze, della conquista e devastazione del mondo -, di chiudersi, di isolarsi, di ritrovare l'identità tra arte e insensatezza, tra arte e follia, tra l'arte e l'essere "parlati dagli dèi": tra arte e mito. L'artista moderno è tornato a testimoniare dell'impossibile Nulla, ha ritrovato la capacità di lacerare il velo della maya¯, di far balenare la luce incolore che sta al di là delle apparenze. E questa casa, piena com'è dei tesori di una rivelazione sconvolgente, il guscio che per decenni ha ospitato il sapiente paguro Calderara, proclama l'incorruttibilità sostanziale dell'arte. Non è un museo: questa è stata la vita di Calderara.
Questa è la sua storia personale, il racconto di come dal "figurativismo" sia passato alle esattezze geometriche senza mai cambiare, per un processo di spogliazione, di denudamento interiore, le cui premesse erano già ben presenti prima. È bastato che Calderara si guardasse un giorno, allo specchio, lo specchio della sua libertà interiore. È una casa che resta immutata, piena di silenziosi echi, remota e inaccessibile a un mondo che le si sfa e consuma tutt'attorno. Il paese in cui sorge sta morendo. La speculazione lo investe, nuovi modi di vivere subentrano agli antichissimi, la comunità che lo abitava è praticamente dispersa. È un paese popolato ormai quasi solo da ombre, da fantasmi. Ora, i fantasmi sono labili: dolci, amabili, ma labili.
Una casa che conservi il ricordo di un momento impareggiabile dello spirito europeo, il momento del suo grande rifiuto, è meno labile dei fantasmi. È, se volete, un'accorata rievocazione. Sono qui ospitati i nobili resti di una celebre salma - temo proprio, infatti, che sia alle porte la realizzazione di quella che Hegel concepiva come augurabile, la morte dell'arte -, ma senza la sua trasposizione nel vivere, nell'esserci della comunità. È un luogo - non ce ne sono più molti - di riposo, meditazione, silenzio. Un luogo che non contiene né conferisce poteri, ma da cui si può estrarre un utile ammaestramento: quello della liberazione interiore.
Gillo Dorfles, Milano 1998
Quasi una sfida alla dilagante tendenza attuale verso la creazione di opere gigantesche, smisurate, già ideate per le sale dei musei, questa collezione di Antonio Calderara, ospitata nella romantica villa-chiostro di Vacciago, costituisce un esempio unico nel suo genere, sia per le dimensioni il più delle volte minori o minime delle opere, sia per l'ubicazione delle stesse nella deliziosa dimora che Calderara aveva abitato e curato in ogni suo particolare, sia per la particolare tendenza delle opere esposte.
Non è solo la dimensione o l'ubicazione delle opere ad essere eccezionale, lo è soprattutto la loro scelta.Molti dei dipinti e delle sculture, infatti, presentano un'evidente "affinità" con le opere del loro proprietario: una scelta dovuta al rapporto costante e affettuoso tra Calderara e i tantissimi artisti che approdavano al suo eremo e che spesso scambiavano le loro opere con quelle dell'amico e collega. Quale è, allora, la caratteristica essenziale a distinguere gli esemplari della raccolta ospitata nella villa di Vacciago oggi trasformata in fondazione e divenuta un vero e proprio e originalissimo museo?
La caratteristica è forse quella d'una generale tendenza verso l'astrazione: un'astrazione geometrizzante e spesso di impronta concretista, ma quasi sempre tendente verso un lirismo atmosferico e tonale, piuttosto che verso un netto costruttivismo.
"Lirismo geometrico e atmosferico" è, mi sembra, una delle note dominanti, un "basso continuo" delle opere dello stesso Calderara (che qui non posso certo analizzare a fondo ma alle quali voglio almeno accennare perché possano giustificare meglio la presenza della maggior parte delle altre).
Una volta abbandonato il percorso della sua fase figurativa (di cui rimangono qui alcune significative documentazioni: alcuni ritratti, paesaggi del lago, nature morte), Calderara aveva imboccato con entusiasmo e con assoluta fedeltà il cammino d'una geometrizzazione rigorosa, ma sempre resa sensibile e persino romantica per la presenza d'un raffinato tonalismo romantico.
È facile intendere, allora, come a questa pittura calderariana si alleino molte opere qui presenti, come ad esempio quelle di Leinardi, di Graevenitz, di Gappmayr, Girke, di Reimer Jochims, di Albers, di Oehm, di Jan Schoon-hoven ecc., tutte molto vicine a un astrattismo geometrizzante anche se molto diverse tra di loro. Ma oltre a questo essenziale filone sono molto ben rappresentati tutti i protagonisti del geometrismo più decisamente timbrico che fanno capo soprattutto alla Konkrete Kunst svizzero-olandese.
E abbiamo così la presenza, con opere di grande efficacia, di artisti come Max Bill, Lohse, Camille Graeser, Vordemberge-Gildewart, Vantongerlo, nonché dei rappresentanti di quel post-costruttivismo geometrico cui appartengono Uecker, Otto Piene, Tornquist.
Non è certo possibile citare qui tutti gli artisti presenti nella collezione (che sono in tutto 134), né analizzarne le singole opere; ma mi preme di notare come il particolare "gusto" di Calderara abbia fatto sì che si siano valorizzate quelle di molti artisti spesso trascurati o noti per altre fasi della loro produzione.
Ecco, ad esempio, il caso di alcuni gruppi artistici come Forma I (qui rappresentato da Piero Dorazio, Carla Accardi); quello del Gruppo T (appartenente alla tendenza ottico-cinetica) con Gianni Colombo, Grazia Varisco ecc.; e così quello di molti astrattisti dei diversi paesi che si possono far rientrare nell'ambito del post-costruttivismo, come Soto, De Camargo, Dekkers, Leppien, o come i rappresentanti del GRAU (Morellet, Le Parc), nonché alcuni artisti italiani, isolati, che in quel periodo abbracciarono questa tendenza anche se poi se ne distaccarono, come Maria Luisa de Romans, Turi Simeti, Arlandi, Cesi Amoretti, Carrino, Olivieri, Griffa, Aricò, Alviani, Dadamaino; mentre è ben rappresentato anche il Movimento per l'Arte Concreta (MAC), di cui sono qui presenti Galliano Mazzon, Mario Nigro, Radice.
La collezione, tuttavia, non si esaurisce con le opere esclusivamente geometrizzanti, programmate e costruttiviste, ma si vanta anche della presenza di alcuni artisti in certo senso più autonomi e meno vincolati al "purismo" di cui sopra, e comunque tra i più significativi nel panorama dell'arte alla metà del secolo.
E mi riferisco ad alcuni "maestri" di primo piano come Licini, Tilson, Sonia Delaunay, Larionov, Hans Richter, Vasarely ecc., mentre è presente, con ben tre opere, un artista che doveva costituire il vero trait-d'union tra figurazione e astrazione e meritare di essere considerato come il vero maestro di molta giovane arte italiana degli anni cinquanta-settanta: dico Lucio Fontana. Al quale sono senz'altro debitori altri artisti qui presenti, come Aricò, Castellani e Manzoni (rappresentato da otto opere).
Accanto alla più folta rappresentanza pittorica non va, finalmente, dimenticata quella di una serie di scultori che aggiungono attrazione al fascino della collezione e ne vivacizzano gli spazi verdi e i loggiati. Tra questi vorrei almeno ricordare Cassani, Balderi, Distel, Dekkers, Spagnulo, Cascella, Azuma, De Camargo, Remotti, Frascà, Prantl, Uncini, Arnaldo Pomodoro ecc.
La raccolta Calderara, in definitiva, costituisce un esempio quasi perfetto di dedizione a una particolare poetica individuata dal suo proprietario e fondatore solo in una fase relativamente tarda del suo operare, ma che fu perseguita senza incertezze né tentennamenti, e che trovò in tanti artisti coevi una quasi assoluta consanguineità.
Questo mi sembra forse l'aspetto più singolare di tutta la raccolta, che costituisce così un esempio unico in Italia di accurata e appassionata dedizione a un preciso e nobile ideale estetico.
Giulio Bedoni, Milano 1998
La forma cubica di un capanno in primo piano, i familiari profili dei colli e dell'isola (la sua "Montagne Sainte-Victoire", come ha scritto qualcuno): emergenze perentorie, stemperate nella tersa luce del giorno chiuso dal fondale dei monti.
Poi, di anno in anno, di tavola in tavola, la progressiva eliminazione del dato naturale: nel grande incantamento della luce, la "storia", sempre riconducibile alle estatiche visioni del lago d'Orta, luogo deputato di quasi tutta la sua pittura, si fa via via meno aneddotica, più universale, resoconto calibratissimo di un rapporto fra astratte geometrie, che
sono l'essenza della realtà,dentro uno spazio ideale.
Antonio Calderara dunque, l'"Antonio da Vaciago" di molti quadri degli anni trenta apprezzati da un vasto pubblico borghese nella marca di confine tra Piemonte e Lombardia, e il Calderara astrattista "europeo" degli anni cinquanta.
Il pittore è nato ad Abbiategrasso il 28 ottobre 1903; ha dipinto il suo primo quadro nel 1915, a Vacciago; ha tenuto la sua prima esposizione nel settembre del 1923, preludio all'abbandono degli studi universitari di ingegneria, deciso l'anno dopo per dedicarsi esclusivamente a una vita di ricerca artistica.
Per molti anni tenne studio in Milano e fu completamente solo, autodidatta ostinato, finché nel 1934 si aggiudicò clamorosamente, pittore senza studi di accademia, un premio milanese allora molto considerato, il Premio Fumagalli ("Mille lire mi diedero, e con esse decisi di andare in isolamento a Pella, sul lago d'Orta, per imparare a dipingere", ricorda oggi l'artista).
Ci rimase un anno, con la moglie Carmela, ombra silenziosa e onnipresente di tutta la sua vita, e con la figlioletta, ma ormai era diventato un pittore à la page, ricercato da collezionisti o da originali figure di mecenati, come un tal Speroni, industriale, che gli combinò un vantaggiosissimo contratto decennale e che accettò quasi subito di disdirlo con disinteressata stima ("Dovetti chiederglielo, ero convinto di non valere tutti i soldi che mi dava e mi aveva preso una tal frenesia che lavoravo di giorno e di notte, uscivo anche en plein air sotto la pioggia pur di far quadri per lui, tanti più di quanti sarebbero bastati per tener fede all'accordo").
Opalescenti vedute di lago riproposte con una chiarità di ascendenza seuratiana, serene contemplazioni di vita domestica, celebrazioni del quotidiano nell'intima sfera di un quieto mondo borghese, come distaccato dalle immanenti temperie, e solidi ritratti "di famiglia" erano i temi prediletti delle sue figurazioni, opere in cui rifluivano con controllato rigore le coordinate lontane di Piero della Francesca, Vermeer e Seurat.
"La sua pittura è così chiara e serena, e non c'è un urto d'un nero ostile né uno stacco precipitoso e neppure nessun grido improvviso, quasi silenziosa in quell'unanime voce sottile senza sforzi né violenze", scriveva nel 1935 Raffaello Giolli, critico d'arte e saggista, autore di una Disfatta dell'Ottocento.
Di Giolli, già docente e critico apprezzatissimo nella Milano degli anni venti e trenta, intellettuale antifascista perseguitato, confinato, sorvegliato (proprio a Vacciago) e infine deportato e morto a Mauthausen, Calderara, sempre aperto all'esercizio di proficui sodalizi intellettuali, fu amico e confidente e ne ricavò un prezioso insegnamento di coerenza morale.
Oggi lo ricorda quale animatore di un premio annuale d'arte dedicato al suo nome e a quello del figlio Ferdinando, giovane poeta morto partigiano. Pronto al dialogo - che, se l'amico è caro e stimolante, si accende tuttora di pirotecnici giochi dell'intelligenza, inclini al gusto e alla volontà di trovare alla luce della ragione un "oltre" a tutte le cose -, aperto alla verifica ma insieme geloso di un suo raccolto isolamento, nel 1959 l'artista si è volto all'avventura astratta, un'avventura meravigliosa e sofferta, inventata quotidianamente con quasi artigianale applicazione dentro i confini della propria severa concezione dell'arte e della vita.
Preziose coincidenze di pensiero ("Gli uomini che si maturano in una data condizione limite della realtà hanno dei passaggi obbligati: [] ci sono delle crune attraverso le quali bisogna passare") lo portano a ripercorrere le esperienze dei neoplastici, dei concretisti, dei suprematisti, ad operare una metodica smaterializzazione della realtà, alla ricerca di un "naturale" equilibrio entro l'ideale spazio infinito.
Con attività instancabile, a Milano o nella sua casa di Vacciago, dove un triplice loggiato secentesco chiuso come dentro un "patio" riflette in ogni istante il mutevole trascorrere della gran luce lombarda e insieme alpestre del lago d'Orta, Calderara, circondato e confortato da una "organizzazione" domestica che da burbero regista-dittatore ha fatto rigorosa come i suoi quadri, realizza e riprende tavole su tavole.
Con certosina assiduità ricerca la giusta luce dei suoi teoremi, il colore-luce di distese velature ottenute con pazienti sovrapposizioni, le vibrazioni emotive che addolciscono la severità delle geometrie, le variazioni, quasi in chiave musicale, di certi ensembles, serie di tavolette come tastiere dove il tocco - viene di dire, e sono pur sempre calibrate campiture - raggiunge astratte rarefazioni.
"Il colore per me è determinante" sottolinea l'artista, "per me il colore è un problema di luce: un problema che, senza che io ne abbia avuto coscienza, è presente nei miei primi quadri del passato e che oggi, nella responsabilizzata ambizione di distruzione della materia, trova una vera ragione di essere luce, una luce che non illumina, una luce senza ombra, una luce che è raffigurazione di se stessa".
Nella quieta residenza di collina si susseguono al cavalletto le cristalline geometrie di tante composizioni, testimonianze della religiosa ambizione di un ordine spirituale che si identifichi in armonia e misura, ma anche, mi sia concesso, progetto e utopia di una società priva di contraddizioni ("Da quando ho lasciato il Politecnico ho sempre desiderato di dipingere il niente; da allora la mia vita è tutta impostata sul desiderio, sul bisogno di togliere. E ci sono voluti tanti anni per non aver paura: oggi dipingo queste cose che sono arrivate all'estrema semplicità. Di che cosa ha bisogno la società di oggi? Non ha forse bisogno di questi silenzi, di questa pace, di questo niente che, per lo meno, sotto ha l'ambizione di essere tutto?").
I titoli dei suoi quadri, quasi sempre tavolette di piccole dimensioni (che l'artista presenta in gallerie d'arte di mezza Europa con esposizioni personali fra cui si ricordano almeno quelle tenute nel 1969 al Kunstmuseum di Lucerna, nel 1977 allo Stedelijk Museum di Amsterdam e attorno agli stessi anni in vari musei pubblici tedeschi), ora sono: Quadrati o Quadrato nero espansione organizzata in quadrato bianco (1960), Spazio-luce (dal 1961 al 1963), Lealtà per Josef Albers (1963), Tensione verticale bianca dal rosa nel rosa (1964), Misura di luce gialla (1964), fino a Sequenze (1968), Orizzonte (1971), Tensione (1972): spazi definiti da sempre più sottili, rarefatte trasparenze, tagliati o attraversati da segmenti che silenziosamente premono, si frangono o si riproducono come segnali, elementi di un lessico che può dirsi trascrizione visiva di un evento musicale e che infatti ha portato l'artista a intrecciare con compositori volti ad analoghe ricerche e con poeti visivi forme nuove di collaborazione.
Nascono così i libri grafico-sonori Tempo Spazio Luce, con sue serigrafie e musiche di Bruno Canino (1963); il Progetto Q81 con musiche elettroniche di Enore Zaffiri (1973); un omaggio alle Quattro stagioni di Vivaldi, ancora con Zaffiri (1974); le edizioni, infine, con poesie visive di Heinz Gappmayr (Monaco, 1968 e Innsbruck, 1973) e di Eugen Gomringer, Wolf Wezel e ancora Gappmayr (Zurigo, 1971).
Un'esperienza in più si aggiunge al curriculum di questo artista che negli anni settanta sembra aver trovato una seconda fruttuosa giovinezza e che non intende rinunciare alle irruzioni della fantasia né al confronto con le più agguerrite avanguardie.
Con queste, anzi, non disdegna di porsi in sintonia, come dimostrano le molte opere di amici italiani e stranieri raccolte con anni di scambi e di ricerche nella sua collezione [...]: "Nel 1959-1960 io ho diviso lo spazio in due parti: un bianco più caldo e un bianco più freddo; Manzoni ha fatto la sua prima cucitura, Leblanc ha diviso per la prima volta lo spazio. Queste opere le ho tutte io, perché quando vedo una cosa così divento matto. Oso dire a un artista con il quale faccio un cambio: fammi un quadro così. Perché ho bisogno di constatare che non sono matto io; ho bisogno di coinvolgere tanta gente alla mia pazzia. Ehi!, siamo una comunità di matti allora! Allora diventiamo saggi!").
Sandro Ricaldone, Genova 1995
Guido Giubbini, Genova 1995
Roberto Sanesi, Milano 1977
Nella linearità, nel 'continuum', nella nettezza verticale dell'opera di Calderara, nella sua frontalità in apparenza statica, certamente assorta, si è ora insinuato un malessere: una diagonale, spesso frammentaria, turba il silenzio, insinua un malessere, una sorta di squilibrio trattenuto, ma evidente.
E nella frantumazione si intuisce un primo articolarsi di scrittura. Avverte l'artista: 'Segni paralleli che imprigionano la diagonale, un alfabeto che costruisce frasi illeggibili, sentimenti utopici. Importante per me il bisogno di fare legato a un tema che nel tempo ha trovato la sua realtà spirituale, la sua ragione di essere, la viva necessità di partecipare'. E' una dichiarazione significativa. Questa nuova parola (possiamo ormai citarla apertamente col suo nome) porta nella sua ambiguità una confessione, ed è la provocazione più autentica del linguaggio di Calderara: cominciare a parlare quando sembrava che tutto fosse stato detto.
Giulio Carlo Argan, Roma 1969
Non si è trovato, così, nella necessità di porre come essenziale la questione di oggetto o non oggetto: anche nel suo periodo figurativo ha sempre sentito l'oggetto come già immedesimato, consustanziale allo spazio. L'oggetto o, se si preferisce il termine romantico, il "motivo" era per lui soltanto una pietra di paragone o, piuttosto, un punto d'appoggio per stabilire l'identità, che soprattutto gli premeva, di spazio e luce, di nozione intellettuale ed emozione visiva.
Quando ha constatato che la sembianza naturale, dopo aver agito come termine medio, agiva come diaframma, e cioè mediava l'equazione, ma impediva l'identità, ha eliminato il termine medio. Il suo 'sentimento', per qualificarsi come ragion poetica, non aveva più bisogno di un oggetto determinato: lo spazio stesso si dava come oggetto universale, assoluto.
Heinz Gappmayr, Innsbruck 1969
I quadri di Antonio Calderara non sono nè astrazioni nè simboli o mediazioni. Non si riferiscono a una realtà da essi diversa; non sono alcunché di isolato, di scisso o di unico, ma neppure qualche cosa di indeterminato e di impreciso, tale che potrebbe essere così o altrimenti: ma, in quanto espressione del pensato e del percepito, sono insieme ampliamento, resistenza, coscienza, necessità.
Il fatto dell'esistenzialità, questo massimo mistero dell'esistenza, nei quadri di Calderara si manifesta come trasformazione dei colori in luce, come identità di concetto e materia. Tutte le proprietà visuali dei suoi quadri sono in pari tempo condizioni dell'essere delle cose. Reale è, per Calderara, soltanto questo in sé, nella finitezza della materia, l'idealità del numero al servizio dell'effimero transitorio.
Gillo Dorfles, Milano 1966
Calderara, proprio per la sua assidua e sapiente manipolazione artigianale, riesce a catturare anche con l'acqua le vibrazioni luminose entro la sorda compagine delle melodie pigmentale; anzi proprio attraverso l'impiego dell'acquarello giunge a condurre fino alle estreme conseguenze percettive ed estetiche il problema della luce, così da ottenere che la luce viva, nel dipinto, della sua sola immateriale smaterializzata trasparenza.
Ed è singolare il fatto che Calderara caso quasi unico nella storia dell'arte recente - abbia saputo valersi di una capacità tecnica, acquisita attraverso un lungo tirocinio figurale, per elevarla a mezzo espressivo astratto, a messaggio di una forma-pensiero, suscitata in lui da intime, segrete emozioni e poi tradotta in autentica virtù comunicativa.
Albert Schulze Villenghausen, Dortmund 1965
Ciò che colpisce immediatamente i nordici a paragone con Joseph Albers, Barnett Newmann, Richard P. Lohse, e anche con Ives Klein, è l'enorme raffinatezza della ricerca cromatica. Non si tratta della 'paté' dell'Ecole de Paris, ne della dura sistematicità tedesca e anglosassone, ne ancora di magia surreale d'un programma monocromo. Sembra piuttosto che sia il risultato naturale, evoluto, ottenuto con disciplina e intelligenza di duemila-tremila anni di tradizione mediterranea.
Murilo Mendes, Milano 1965
Credo, dunque, che queste opere non siano fatte per un "consumo" rapido, bensì per la durata. Corrispondono ad uno stato di spirito che ha la sua importanza nella nostra epoca: cioè, l'aspirazione alla pace profonda, alla pace che viene dal substrato più intimo del nostro essere, a questa pausa, questo silenzio fecondo fatto di ritmi; che sorprendiamo per esempio nelle tele dei pittori olandesi del secolo XVII, specialmente Vermeer de Delft, maestro di Mondrian, che non può non aver toccato il nostro artista.
Maurizio Fagiolo dell’Arco, Roma 1965
La realtà di Calderara è la nascita della realtà. Una pittura di stati d'animo, ma senza la furia dei futuristi, senza il simbolismo di Kandinsky. Più che alle strutture visive guarda alle strutture immaginative: allo choc ottico vuole sostituire la lenta persuasione, al dramma informale vuole contrapporre la favola serena. Come un Mondrian ma cosciente che è impossibile eliminare il 'tragico quotidiano'; come un Albers ma cosciente che dietro le rigidezze geometriche bisogna saper vedere il tremolio organico della natura.
La geometria è come velata, messa tra parentesi, fitrata: tuttavia non c'è alcun sospetto di 'chiarismo lombardo' nei quadri pallidi di Calderara. Se è vero che questa pittura vuole costruire o ricostruire qualcosa (e quindi si spiegano gli omaggi a Mondrian e Albers), è anche vero che nel brevissimo campo finito del quadro vuole portare una presenza dell'infinito.
Jesus Raphael Soto, Parigi 1965
La forma allo stato delle relazioni pure è stata miracolosamente sfiorata da tre rare sensibilità: Malvic, Mondrian e Yves Klein che sono morti, ma un barlume è stato salvato, anch'esso per miracolo, da Calderara... io non conosco, tra gli artisti viventi, nessuno che ci sia arrivato più vicino.
M. J. Leering, Eindhoven 1965
Egli arriva all'astrazione delle forme geometriche molto più che Mondrian, non perché egli stimi le relazioni tra le cose più importanti che le cose stesse, ma perché per lui le cose si dissolvono nella luce, processo che le rende visibili soltanto nelle proporzioni di colore, al fine di definire queste proporzioni gli è necessaria la forma; e dalla forma e dalle misure della tela si evolvono quadrati e rettangoli.
Marco Valsecchi, Milano 1962
Nella pittura di Calderara lo spazio è. Non si tratta di un'approssimazione nè di un ritmo geometrico: è nell'idea della sua universalità, come valore assoluto. Il pittore raggiunge in queste sue opere la totalità del rapporto pittura-idea, eliminando man mano quanto possa ostacolare questa riduzione all'essenziale. Direi che nella pittura di Calderara lo spazio esiste proprio nella misura con cui diventa colore-luce.
Carlo Belloli, Padova 1960
Dopo aver sottoposta la sua emozione ad un adeguato controllo, necessario perché l'idea di forma pura potesse organizzarsi in metodo costruttivo di alternanze progressive e ritmiche delle forme geometriche elementari determinanti colori primari per associazioni cromatiche secondarie, a Calderara fu possibile tradurci in concreti termini pittorici quei valori immanenti spazio-tempo che solo la musica poteva esprimere in categorie trascendenti.
Giulia Veronesi, Milano 1960
Il luogo della vita non è più, per Calderara, il luogo dei passi e delle voci, il luogo di un gesto, è il luogo perfetto di una chiarità senza ombra, di 'una luce che non illumina': che non viene, cioè dall'esterno delle cose, ma ne è la sostanza, e diventa, nell'opera, sostanza di pittura.
E' il limpido luogo di linee che nessuna curva muove, nessun dubbio piega, disturba. E' il paese della certezza, una certezza poetica. E tuttavia trepida è la sua mano, obbediente al cuore; un impercettibile lieve alitare è la vita segreta del suo pennello, sillaba della sua pazienza e di quel fuoco ch'essa tempera, adagio, sì che l'altezza del colore ne diviene chiarità effusa, quasi angelica pace.
Giampiero Giani, Milano 1954
Chi sono i suoi personaggi? Una donna, che è sua moglie; un uomo anziano, che è suo padre; una donna anziana, che è sua madre; e poi se stesso. Immagini che sono uscite da una rifrangenza di specchio, di continuo mutando gesto e posa.
Sono ritratti di casta, una specie di araldica dei suoi sentimenti. Come gli antichi palazzi portavano ripetuto lo stesso stemma, i suoi quadri sono una storia e ripetuta rappresentazione.
Raffaello Giolli, Vacciago 1935
La sua pittura è così chiara e serena, e non c'è un urto d'un nero ostile nè uno stacco precipitoso e neppure nessun grido improvviso, quasi silenziosa in quell'unanime voce sottile senza sforzi nè violenze; eppure la sua non è mai stata una pittura facile.
Antonio Calderara non è uscito da una scuola di pittura, dove l'arte è diventata mestiere e il linguaggio vive d'imitazione. Egli non si è mai sentito tranquillo in una sintassi autorevolmente ereditata; ma si è subito, e poi sempre, trovato solo davanti all'arte come mistero. Intanto, proprio dove la sua pittura sembrava più assentarsi, proprio al polo opposto di dove la sua pittura sembrava, volontariamente più cercarsi e affermarsi, proprio in quei chiarori impoveriti invece che in quegli schemi rettilinei, si apre un altro suo gusto più interno, inatteso, fiabesco, dell'espressione: quel gusto delle risonanze contenute, dei centri da cui è ugualmente lontano il più bianco e il più nero, quel cuore che sembra essere soltanto respiro.